Negli anni '20 del '900, nel giro internazionale dello spettacolo irruppe un personaggio fin lì mai visto prima, il "fachiro indiano" Blacaman. Le sue erano esibizioni di quelle da fiato sospeso: dagli esercizi fachirici di routine a quelli di ventriloquo ed illusionista oppure ad ipnotizzatore di animali feroci (coi quali giocava pericolosamente). Che si esibisse in uno stadio, in un teatro o sotto il tendone di un circo, nulla cambiava in quanto era sempre il tutto esaurito; per cui gli impresari d'Europa e d'America se lo contendevano a suon di quattrini. Nel 1939 venne scritturato, come protagonista, dalla Universal Pictures per il film "You can't cheat an honest man" (regia di Milton R.Krasner), con una sequenza cinematografica memorabile nella quale Blacaman addomestica alcuni leoni. Il fachiro (che indiano non era affatto), in realtà, si chiamava Pietro Aversa, nato nel 1902 a Castrovillari, cittadina situata ai piedi del Pollino, in provincia di Cosenza.
La mitica capitale degli Italici "Coni" fondata, secondo alcune importanti fonti storiche, nell'area dell'Alto crotonese.
FATA MORGANA
PITAGORA
La Fata Morgana, o Fatamorgana, è un insolito effetto
ottico, una forma complessa e insolita di miraggio che si può scorgere
all'interno di una stretta fascia al di sopra dell'orizzonte. Il nome
italiano è conosciuto anche all'estero, perché si tratta di un fenomeno
frequentemente osservato nello Stretto di Messina e tramandato dai normanni.
Esso fa riferimento alla fata Morgana della mitologia celtica, che induceva nei
marinai visioni di fantastici castelli in aria o in terra per attirarli e
quindi condurli a morte. Quella legata a questo insolito effetto ottico è una
leggenda ampiamente diffusa in tutta l'area dello Stretto: durante le invasioni
barbariche, in agosto, un re barbaro giunto a Reggio Calabria vedendo
all'orizzonte la Sicilia si domandò come raggiungerla, quando una donna molto
bella (la Fata Morgana) fece apparire l'isola a due passi dal re conquistatore
che si gettò in acqua, convinto di potervi arrivare con un paio di bracciate,
ma l'incanto si ruppe e lui morì affogato.
Era nato a Samo nel 570 a.C., ma nel 531 aveva deciso di lasciare la Grecia per trasferirsi a Crotone, la città italica che allora rivaleggiava in potenza con Sibari e Taranto, con Reggio e Siracusa. Si chiamava Pitagora, era figlio di genitori mortali ma la leggenda che circolava intorno a lui faceva derivare il suo nome dalla sacerdotessa Pitia (la Pitonessa), che aveva profetizzato la sua nascita divina per volere di Apollo. Viaggiando per l'Egitto, la Mesopotamia e la Persia aveva appreso le leggi del cielo e della terra dai sacerdoti di Iside, dai magi di Babilonia e addirittura dalla bocca del profeta Zarathustra. La città calabrese lo accolse davvero come un dio tanto che al suo passaggio le folle ammutolivano per lo stupore. Raccolse più di 600 adepti e stabilì norme durissime per selezionare i migliori discepoli. Gli aspiranti dovevano rinunciare, innanzitutto, ai loro beni materiali, poi dovevano osservare una dieta strettamente vegetariana, evitando però le fave che, diceva, "provocano vento", dovevano, inoltre, dire addio al vino e moderarsi nella vita sessuale, non potevano avvicinarsi ai macellai ed ai cacciatori, perchè la vita degli animali era sacra, ma soprattutto dovevano rispettare la legge dell'eufemìa: il silenzio rituale. Per cinque anni non potevano parlare, ma soltanto ascoltare, riflettere, meditare. Pitagora non fu solo un matematico ed uno scienziato, ma anche un mago, un veggente, ed i suoi adepti (definiti "pitagorici") erano temuti per le loro occulte conoscenze magiche. Le due qualità (scienza e magia), che a noi moderni appaiono opposte ed inconciliabili, erano allora assolutamente inseparabili, tanto che, riferisce Diogene Laerzio, quando il genio di Samo ebbe scoperto la legge dei quadrati costruiti sui lati del triangolo rettangolo (il teorema più celebre della geometria), non pensò ad altro che a rendere grazie agli dei con un sacrificio solenne e con rituali arcani, perchè era convinto che il suo ragionamento fosse frutto di ispirazione divina. Pitagora amava in modo speciale gli animali ed aveva con loro un rapporto magico. A Crotone rese innocua una terribile aquila bianca e con amore le accarezzò a lungo la testa, mentre a Caulonia ammansì un'orsa feroce che scendeva dai monti. Un'altra volta, nei pressi di Taranto, vide un bue che si cibava di fave, andò allora dal bovaro e gli consigliò di dire alla bestia di lasciar stare quel nutrimento proibito; quello, credendolo pazzo, gli rispose in tono di scherno che non conosceva l'idioma bovino; Pitagora non si scompose, si avvicinò al bue e gli bisbigliò qualcosa in un orecchio; l'animale allora si allontanò dal campo, camminò senza fermarsi fino a raggiungere il tempio di Era a Taranto e non si mosse più da quel luogo per tutto il resto della sua vita. Osservando la realtà dei fenomeni fisici, Pitagora si rese conto che tutto ciò che avviene in natura è regolato da precise relazioni numeriche, si accorse che l'intera realtà risponde alle leggi dei numeri. Studiando i rapporti numerici dell'universo scoprì il meraviglioso ordine dei moti degli astri, e fu così il primo che al cielo diede il nome di cosmo (in greco kosmos significa appunto "ordine"). Secondo Aristotele, Pitagora fu addirittura il precursore dell'ipotesi eliocentrica: affermò infatti che al centro del cosmo non poteva non trovarsi che il fuoco, cioè il sole, fonte di vita e di calore, perchè tra gli elementi era il più nobile e quindi era giusto che a quell'astro spettasse il luogo più nobile. Fu, inoltre, il primo a rivelare i rapporti matematici tra i suoni e divenendo così il fondatore della scienza musicale, applicandola alla cura delle turbe fisiche e mentali divenendo il fondatore della musicoterapia. E' possibile immaginare in che modo la fama ed il potere di Pitagora crescessero a Crotone ed in tutta la Magna Grecia. Pur senza aver chiesto ne avuto cariche politiche, era divenuto, di fatto, la massima autorità cittadina. Ma come sempre accade, fu quello il momento della svolta fatale. La causa prima delle sua disgrazie furono le invidie di Cilone, il cittadino più ricco di Crotone. Pitagora, a causa del suo rifiuto di accettare nella sua scuola Cilone quale allievo, fu da quest'ultimo (e dai suoi adepti, i "ciloniani") braccato e trucidato nei pressi di Metaponto, dopo alcuni giorni di fuga da Crotone. Dopo la sua morte, gli allievi sopravvissuti mandarono avanti l'attività della scuola ed alcuni cominciarono a trascrivere nei libri gli insegnamenti che il maestro aveva impartito a voce; nessuno però osò divulgare oltre la cerchia degli iniziati quelle dottrine segrete, fino a quando un giorno, un pitagorico famoso, Filolao, trovandosi in stato di pevertà estrema si rassegnò a vendere per cento mine i libri sacri ad un altro filosofo, appena giunto in Magna Grecia da Atene, il cui nome era Platone.
Un mitico Re Niliu, al cui nome si
richiama una grotta dritta, a cunicolo, che dal centro del crinale si
perde nelle viscere del monte Tiriolo, è il protagonista di una
leggenda nella quale sono coinvolti una famiglia regale, una
fanciulla bella ma povera, l'ingenuo servo e un gallo. Niliu, rampollo principesco,
s'invaghisce di una giovane popolana, con la quale compie una fuga
d'amore perché i propositi di coronare felicemente il loro sogno,
vengono contrastati dalla madre. Sul giovane in fuga pesa la maledizione
dei genitori: sciogliersi come cera colpito dai raggi del sole. Niliu può incontrare la moglie e il
figlio nato dall'unione con la fanciulla, soltanto di notte nel lungo
cunicolo naturale che dalla cima del monte arriva fin sul mare, nei
pressi della foce del Corace, dove nel frattempo aveva trovato riparo
il resto della famiglia. Il giovane viene avvertito del sorgere del
sole dal canto del gallo. La bella storia d'amore tra il principe e
la popolana arricchita dal sorriso di un fanciullo rubicondo, va
avanti per parecchio tempo, fino a quando le fate hanno deciso di non
far cantare il gallo. Nella fatidica alba, sorpreso dai raggi del
sole, Niliu in preda alla disperazione, al servo fedele che chiede
conto del lascito delle ricchezze, predice di lasciare tutto al
diavolo, il quale a sua volta, diviso il denaro in tre gruzzoli
(d'oro, d'argento e di bronzo) lo nasconde nelle viscere del monte.
L'incantesimo, narra la leggenda in conclusione, si può solo rompere
con il ricorso a pratica diabolica.
Sono poche le notizie storiche su
questo personaggio al cui nome sono associate vicende leggendarie,
presenti talora anche nel folklore europeo o nella tradizione
letteraria classica, per cui a livello popolare è considerato una
delle incarnazioni del prototipo dello stregone. Certa è la data di
nascita, avvenuta a Torzano, oggi frazione del comune di Cosenza
denominata Borgo Partenope; secondo lo storico del XVIII° secolo
Salvatore Spiriti la morte di Benincasa è avvenuta nel 1626. Dalla
precisione dei suoi calcoli astronomici, ma dalla rozza e scorretta
lingua latina adoperata nei suoi scritti, si è ipotizzato che fosse
un autodidatta molto dotato in astronomia. Secondo una tradizione
diffusa in Calabria, Benincasa avrebbe partecipato alla congiura di
Campanella il cui fallimento lo avrebbe costretto alla clandestinità.
Il suo nome è legato alla sua opera più conosciuta, l'Almanacco
Perpetuo, scritta nel 1587, e stampata per la prima volta a Napoli
nel 1593 presso Giovanni Iacopo Carlino e Paci. Il successo
dell'Almanacco è dimostrato dalle moltissime edizioni che furono
ristampate nel corso dei secoli e dall'essere assurto a modello per
altri almanacchi successivi, tra i quali compare il Barbanera,
considerato il suo più diretto erede. Dopo la morte di Rutilio,
l'Almanacco fu ritoccato da molti altri, tra cui Ottavio Beltrano,
con lo scopo di aggiornarlo. Rutilio Benincasa è noto poi per alcune
tavole numeriche a lui attribuite, attraverso le quali, secondo la
credenza popolare, sarebbe possibile prevedere l'uscita dei numeri al
lotto. A Benincasa nei secoli successivi alla sua morte vennero
infatti ricondotte numerose pubblicazioni, in realtà quasi tutte
apocrife.
SCILLA E CARIDDI
Scilla e Cariddi erano due mostri
marini che vivevano nello stretto di Messina. La leggenda narra che
Scilla era una splendida ninfa, figlia di Forco e Crataide.
Trascorreva i suoi giorni nel mare, giocando con le altre ninfe e
rifiutava tutti i pretendenti.
Quando il dio del mare Glauco si
innamorò di lei, andò dalla maga Circe a chiedere un filtro
d’amore, ma Circe a sua volta si invaghì di lui.
Rifiutata da Glauco, rosa dalla
gelosia, trasformò la rivale Scilla in un mostro con dodici piedi e
sei teste, nelle cui bocche spuntavano tre file di denti. Secondo
alcuni, intorno alla vita aveva appese teste di cani che abbaiavano e
ringhiavano ferocemente. Scilla era immortale e l’unica maniera per
difendersi da lei era quella di invocare l’aiuto di sua madre, la
ninfa del mare Crataide.
Il mostro si nascose in una spelonca
dello stretto di Messina, dal lato opposto a quello di Cariddi, e
quando i naviganti si avvicinavano a lei, con le sue bocche li
divorava. Venne infine trasformata in roccia, e
in questa forma la trovò Enea passando dallo stretto. Cariddi è un mitico gorgo
dell’estremità settentrionale dello stretto di Messina. Descritto come un mostro figlio di
Poseidone e di Gea, succhiava l’acqua del mare e la risputava tre
volte al giorno con tale violenza da far naufragare le navi di
passaggio. Odisseo, dovendo passare
necessariamente tra i due mostri, preferì avvicinarsi a Scilla
poiché Cariddi avrebbe portato sicuramente la distruzione delle
navi. Più tardi, dopo che i suoi uomini erano stati uccisi da Zeus
per aver catturato gli armamenti di Elio, la nave di Odisseo venne
attratta dal gorgo di Cariddi, e l’eroe sopravvisse soltanto perché
riuscì ad aggrapparsi ad un fico che sbucava dall’acqua. Quando,
ore dopo, ricomparve la nave, Odisseo s’aggrappò ad un albero
riemerso, ed ebbe salva la vita.
Sybaris fu fondata nel lontano 720 a.C. da un gruppo di Achei provenienti dal Peloponneso, negli ultimi anni del regno di Romolo. Fu la più antica colonia achea d'Italia e divenne ben presto una delle più grandi città della zona, la seconda di tutta la Magna Grecia, dopo Taranto. La città governò su quattro tribù e
25 città, fece guerre dotata di 300mila uomini ed i
suoi abitanti riempivano un circuito di 50 stadi (circa 9 km).Secondo alcuni storici greci, era una città ricchissima, nella quale vivevano abitanti particolarmente raffinati ed estremamente eleganti. Erano soliti indossare, infatti, abiti di pregio, sui quali spiccavano fili d'oro e spille preziose. Non era raro, poi, che qualcuno usasse indossare una sorta di vestito da parata, con lunghi mantelli. Uno dei passatempi preferiti degli antichi Sibariti era il classico banchetto, per il quale ogni altra attività doveva essere sacrificata. Avevano anche la fama di dormitori e avevano escogitato un sistema per non fare entrare i raggi del sole nelle loro abitazioni. Strabone affermava che i sibariti oltre
a essere lussuriosi erano anche perfidi e superbi, non a caso si dice
Sibarita crudeltà per definire il carattere arrogante ed egoista di
una persona. Questa civiltà era conosciuta ovunque nel mondo antico
come popolo senza il senso dell'onore e dell'amicizia. Il suo declino cominciò in seguito alla sconfitta nella guerra contro i Crotonesi.
Dopo aver compiuto il Sacco di Roma nel
410 d.C. i Visigoti, capeggiati da re Alarico I, lasciarono la città
carichi di bottino e si mossero in direzione di Reggio Calabria con
l'intenzione di conquistare l'Africa; una tempesta, però, disperse e
affondò le navi quando erano già in parte cariche e pronte a
partire; dunque Alarico lasciò la città e mosse verso nord; ma
quando era ancora in Calabria, nei pressi di Cosenza, si ammalò
improvvisamente di malaria e morì. Secondo la leggenda venne sepolto
con i suoi tesori nel letto del fiume Busento, alla confluenza con il
fiume Crati, a Cosenza. Gli schiavi, che avevano lavorato alla
temporanea deviazione del corso del fiume, furono uccisi perché
fosse mantenuto il segreto sul luogo della sepoltura.
"Ma del giardino in sul confin tu vedi d'ogni erba e d'ogni fior sempre vestirsi ben culte aiuole, e scaturir due fonti che non taccion giammai.....Si bella sede ad Alcinoo destinaro i numi". Questi versi tratti dal VII° libro dell'Odissea di Omero sono (probabilmente) riferiti al lembo di Calabria compreso tra i golfi di Santa Eufemia e di Squillace che oggi costituisce la provincia di Catanzaro. Infatti, secondo una delle più attendibili ricostruzioni delle peregrinazioni di Ulisse, l'amena Scheria, la lussureggiante ed ospitale terra dei Feaci, dove l'eroe omerico incontra la bella Nausicaa (nella "zona dei lavatoi") sarebbe da identificare nei pressi dell'attuale abitato di Tiriolo, in prossimità del tratto che viene oggi attraversato dall'autostrada che unisce Lamezia a Catanzaro, mentre il porto da dove Ulisse s'imbarca per il rientro ad Itaca è da ubicare in corrispondenza della foce del fiume Corace.